Non bisogna minimizzare né la dimensione della sconfitta che il PD e il centrosinistra hanno subito in Calabria né l’insuccesso registrato in Italia. Dobbiamo avere consapevolezza che la sconfitta è stata sancita dall’assenza di un credibile progetto di governo rivolto al futuro e dal fallimento di una strategia della politica delle alleanze del PD. Non c’è stata una bussola capace di coniugare progetto, alleanze e candidature. Anche per questo in Italia si è potuti passare disinvoltamente da una teorizzazione di un allargamento del campo riformista, innanzitutto attraverso la intesa con l’UDC, alla riproposizione di un abbraccio mortale con Di Pietro. Ha pesato l’incertezza e la indeterminazione di linea politica. In questo quadro è stato sbagliato che venisse scelta la Puglia come regione-laboratorio per sperimentare la forza strategica dell’alleanza con l’UDC e non la Calabria. Se la stessa ostinazione che il gruppo dirigente del partito ha manifestato per l’alleanza con l’UDC in Puglia fosse stata applicata in Calabria, forse a questo punto avremmo potuto registrare un successo in Puglia ed anche in Calabria. Alla base di questa indeterminazione di linea politica c’è stato lo svolgimento di un congresso del PD che forse avremmo fatto meglio se l’avessimo svolto dopo le elezioni regionali e non prima. In Calabria ancor di più questo errore è sembrato assai evidente, dove la maggioranza bersaniana si è consolidata su un accordo di potere preelettorale. Oggi si tratta di ricostruire dalle fondamenta. Intanto c’è bisogno di più PD; non di un simulacro di partito ma di un vero e credibile PD coerente con il progetto ispiratore. Anche per questo si tratta di partire innanzitutto dalle priorità sociali sulla base di un impianto culturale e politico capace di parlare il linguaggio di una autentica modernizzazione e crescita. La stessa identità del Partito Democratico va definita attraverso una iniziativa strategica capace di interpretare innanzitutto questa domanda. I dati elettorali testimoniano uno scollamento tra società e politica. Rispetto a questa vera e propria emergenza democratica non si possono prendere scorciatoie massimalistiche. Nessuna ambiguità più con il giustizialismo, com’è avvenuto in questi ultimi anni, dove molti di noi venivano colpiti sui territori dai gossip mediatico-pseudogiudiziari, e l’Unità continuava a mantenere tra i suoi collaboratori Travaglio e De magistris. Né il conflitto d’interesse sull’informazione deve prevedere una beatificazione di Santoro, molto bravo a sfruttare l’antiberlusconismo per delegittimare la classe dirigente del PD. Naturalmente senza autoassolverci come gruppi dirigenti del Partito dove, soprattutto nel Mezzogiorno, il vero limite di governo riguarda la capacità di intervenire sulla zona grigia dell’omertà e degli interessi particolari.
Se, dunque è vero, com’è vero, che la sconfitta elettorale oggi nasce da uno scollamento tra politica e società, che denuncia pericolose prospettive per il futuro, necessariamente il PD deve essere portatore di un progetto capace di rimotivare il senso di una rinnovata idea dell’Unità del Paese. E i capisaldi non possono non essere che:
- Un progetto economico e sociale che riunifichi aree forti e aree deboli del Paese, in un’ottica di sviluppo che punti a creare nuovo lavoro, per offrire soprattutto ai giovani percorsi di prospettiva di vita e di futuro.
- Un nuovo sistema di welfare e di ammortizzatori sociali (da proposte di sostegno al reddito dei giovani all’incremento delle pensioni social) che possa fondarsi su una riduzione della pressione fiscale funzionale ad una più equa redistribuzione del reddito e della ricchezza e teso non solo a tutelare ma ad allargare la fascia dei diritti, distinguendo reddito da lavoro.
- Le riforme istituzionali a partire dalla giustizia secondo la bozza proposta dall’on. Andrea Orlando (che non si può criminalizzare perché ha aperto, legittimamente, da responsabile nazionale il dibattito su questo tema: trovo molto più improprio partecipare al NBday, dopo aver deciso, in Direzione, di non esserci) e dal cambiamento della legge elettorale che deve consentire al cittadino di scegliere i propri rappresentanti e non di subirli perché nominati.