di Guido Salvini
La guerra civile, usiamo questa metafora, che oppone senza tregua governo e magistratura, con le altre forze politiche e culturali ridotte quasi al rango di comprimari, non avrà a lungo termine né vincitori né vinti ma sicuri sconfitti i comuni cittadini che hanno diritto ad una giustizia migliore. Un Paese progredito non se la può permettere. È vero che la riforma nasce inquinata da un sapore forte di rappresaglia e che ha l’insuperabile tara di non affrontare insieme sia il ruolo dei giudici che l’organizzazione della giustizia, e sarebbe una condizione minima per una riforma «epocale». Così la riforma sembra più una riforma dei giudici o contro i giudici che una riforma della giustizia e giustifica i peggiori sospetti. Ma detto questo, e dopo la gaffe del pm che con tono guerresco ha incitato la base ad una «risposta epocale», la magistratura, proprio per il potere immenso che ha, moltiplicato da un patto di ferro con alcuni mass media che si trovano d’incanto in mano tanti invitanti atti processuali, non può rifiutare una riflessione razionale anche su se stessa usando in eterno il Presidente del Consiglio come alibi. Un atteggiamento non da Chiesa ma laico comporterebbe non respingere tout court cambiamenti solo perché provengono da un governo considerato nemico ma riflettere se le proposte riguardano o no problemi reali, se le soluzioni sono irreparabilmente sbagliate o in parte sensate o migliorabili con la discussione. E allora, forse, molto è da rifiutare. Ma abbastanza c’è da discutere. Non va bene che la responsabilità civile dei giudici passi dalla colpa grave alla colpa generica. Ciò porterebbe a una “giustizia in difensiva” simile alla scelta di alcuni medici che, solo per timore di responsabilità, prescrivono più esami del necessario, attendono e magari non tentano operazioni con qualche margine di rischio ma forse decisive per salvare il paziente. Sarebbe meglio rendere più incisiva la responsabilità disciplinare e questo, come diremo, nel progetto in qualche modo c’è. Non va bene impedire al pm di impugnare le sentenze di assoluzione come può fare invece l’imputato dopo una condanna. Se parità ci deve essere, sarebbe uno sbilanciamento grave. Piuttosto per evitare, come oggi, un’attesa eterna del processo di secondo grado è meglio ridurre i giudici d’appello da tre a uno, con il potere solo di conferma o di rinvio in primo grado, moltiplicando così i processi conclusi. Deve rimanere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma, a parte la legge non scritta che vuole che i processi contro Berlusconi, giusto o no che sia, si facciano prima degli altri e profondendo le migliori energie, qualche problema c’è. Un’indagine o la fissazione di un processo non possono dipendere dalla sorte o dal fatto che questo o quel magistrato fa un’indagine, o fissa un processo prima o dopo a suo piacimento, o se è interessato o meno al caso. Una regolamentazione rigida per legge sarebbe troppo, ma si possono introdurre principi organizzativi seri simili a quelli del Procuratore di Torino Maddalena che, senza aspettare riforme epocali, ha fissato con una circolare ordine e tempistica delle indagini da fare. Anch’io poi credo che nelle indagini in cui sono in gioco interessi di rilievo, dalla mafia alla corruzione all’ambiente, sia molto pericoloso sottrarre la Polizia giudiziaria al controllo delle Procure con il rischio del ripetersi delle pigrizie e delle deviazioni del passato. Ma il principio non deve essere assoluto. Almeno per i reati minori, quelli che riguardano la vita del territorio, si potrebbe ridare qualche iniziativa alla Pg responsabilizzandola, dato che le Procure hanno poco tempo per occuparsene. Ricordo – gli esempi sono sempre utili – il caso di una giornalista nella cui villetta era stato rubato il computer con tutto il materiale di lavoro. Aveva fondati sospetti su un paio di giardinieri. Chiese alla Stazione Carabinieri del posto di fare subito una perquisizione nella loro casa ma questi, senza delega del pm, non potevano muoversi. Allora andò in Procura ma dopo 6 mesi il fascicolo non era stato ancora registrato e quando lo fu al pm assegnatario quel piccolo caso interessava poco. Era tardi e la perquisizione non ci fu mai. Era un caso piccolo ma importante per il cittadino comune. Non è poi un delitto di lesa maestà dividere il Csm in due, magari con qualche momento di seduta comune e lasciando comunque i magistrati in numero maggiore rispetto ai laici. Trasferimenti, promozioni, incarichi extragiudiziari sono importanti non solo per il concorrente ma soprattutto per gli utenti finali cioè i cittadini. Tutti sappiamo che il Csm è purtroppo dominato dalle correnti con le loro spartizioni e le loro clientele – servirebbe magari qualche forma di sorteggio – e i pm hanno nelle correnti un peso molto maggiore rispetto al loro numero, che è circa un ottavo di quello dei giudici. È difficile spiegarsi perché il valore professionale di un giudice debba essere valutato da pm, come del resto anche il contrario. C’è il rischio, talvolta molto concreto, che i giudici accontentino in aula i pm sapendo che in seguito, tramite loro e le correnti in cui predominano, potranno avere un beneficio in questo o quel concorso. Non è nemmeno uno scandalo eliminare la Sezione Disciplinare del Csm e sostituirla con una Corte di Disciplina indipendente e non elettiva. I procedimenti disciplinari per gli incolpati e per le ricadute che hanno su processi di rilievo, sono spesso più importanti di un processo penale. Oggi la prima cosa che fa un magistrato incolpato è rivolgersi ai consiglieri della sua corrente perché intercedano sul consigliere, sempre della corrente, che sta nella Sezione Disciplinare, con buona pace dell’imparzialità e di quei reietti non appartenenti a nessuna corrente, ai quali gli incarichi direttivi sono praticamente interdetti e che nei procedimenti disciplinari rischiano di pagare per tutti. Che questi interventi di “segnalazione” siano ascoltati o no, sembra ovvio che gli eletti al Csm non dovrebbero mai poter giudicare i loro elettori. A rischio di passare per disertore, sospetto che in un’ambiente autoreferenziale come il nostro si paga molto caro, preferirei discutere piuttosto che scioperare. Servirebbe un tavolo di intesa, con la presenza di tutti, forse promosso dal Capo dello Stato. Ma prevarrà credo, nella nostra Associazione, il rifiuto in blocco, il messaggio più oscurantista: ascoltare il nemico è già peccato, “nulla salus extra ecclesiam”.