Tutti prosciolti gli indagati dell’inchiesta monstre che trasformò De Magistris nel presunto eroe fustigatore dei “poteri deviati” del Sud. Dopo anni di pubblica gogna, ecco le loro voci di condannati senza processo di Peppe Rinaldi da “Tempi” Parlano di ritorno alla vita e di «ferite che porteremo per sempre sulla nostra pelle», chiedono giustizia per «il nome infangato della Basilicata», si scagliano contro la «spregiudicatezza» di un magistrato che ha rovinato le loro esistenze, costruendo contro di loro ipotesi di accusa che «riposavano sul nulla, sul ciarpame dichiarativo raccattato nei bassifondi della società lucana», mentre la stampa «cavalcava senza equilibrio» e «senza vergogna» l’inchiesta, facendo passare le elucubrazioni di un fantasioso giustiziere «per verità assolute, in dispregio dei più elementari princìpi del diritto». Sono trenta tra politici, magistrati, imprenditori e funzionari per anni accusati dal pm di Catanzaro Luigi De Magistris di far parte di chissà quale oscura cupola del potere lucano, processati senza appello da giornali affamati di titoloni e che oggi, seppellito per sempre sotto la lapide dell’archiviazione l’incubo di un’inchiesta megagalattica iniziato nel 2007, tornano a parlare dalle pagine di Tempi. Consapevoli, forse, che per nessuno di loro sarà mai veramente compensata la perdita della famosa presunzione di innocenza. Alcuni di loro saranno perfino costretti a portarsi dietro per sempre macchie degne di un puritanissimo sexgate. Già, perché non l’ha inventata la procura di Milano la caccia al bunga bunga, la persecuzione della concupiscenza parapolitica. Prima di Ilda Boccassini e Pietro Forno, De Magistris, da pm, aveva già elevato le vicissitudini erotico-sentimentali degli indagati a dignità se non proprio di reato, almeno di presenza alle carte processuali. E chi, se non il magistrato che – parole sue, contenute nell’autobiografico Assalto al pm (Chiarelettere) – ha sempre fatto «indagini ad altissimo livello, indagando a trecentosessanta gradi senza guardare in faccia a nessuno e con l’unico obiettivo di realizzare l’articolo 3 della Costituzione»; chi, se non l’aspirante sindaco di Napoli, poteva immaginare che le «orge a Policoro» alle quali si sarebbero dedicati alcuni avvocati lucani, o la «relazione extraconiugale tra due magistrati» del medesimo palazzo di giustizia avessero un senso tale da sconfinare nel territorio del codice penale, tramutandosi da privatissimi sollazzi in pubblici indizi? Solo un «libero pensatore» come De Magistris avrebbe potuto ammettere nel proprio percorso logico-deduttivo e ritenere determinante per le indagini una tresca amorosa tra colleghi sul posto di lavoro.
La tattica del “si dice che”
Se anche la Boccassini, Forno e il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati si fossero sciroppati le 200 mila pagine (dicasi duecentomila) di Toghe lucane, l’altra mitica inchiesta di De Magistris, seconda solo a Why not quanto a effetti per la giustizia e il diritto italiani, ora saprebbero che il Rubygate ha un illustre precedente, in quanto a invasione della privacy dell’indagato. L’euro-pm, al tempo in cui era convinto di essere sul punto di scoperchiare l’ennesima presunta cupola massonica emergente negli interstizi delle corrotte istituzioni lucane, per questa vicenda specifica si beccò pure una bella incolpazione, cioè una condanna. Succedeva due anni fa quasi esatti. Fu la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che il 19 febbraio 2009, disarcionando il giustiziere di Catanzaro con undici capi di imputazione (sei condanne e cinque assoluzioni), lo sanzionò “pesantemente” anche per il fatto che negli atti d’indagine fossero state riportate circostanze del tutto ininfluenti ai fini indiziari, come, appunto, una storia di sesso o d’amore tra un uomo e una donna del palazzo di giustizia potentino. Rendendola così di dominio pubblico. L’organo di autogoverno della magistratura italiana così sentenziò: «Il dottor De Magistris è stato riconosciuto colpevole per avere, con grave e inescusabile negligenza, emesso, nell’ambito del procedimento n.375/0321-n.444/05-21, denominato “Toghe lucane” un decreto di perquisizione locale nei confronti del dottor Vincenzo Tufano, procuratore generale di Potenza, ed altri, connotato da gravi anomalie, quali l’evidente non pertinenza della motivazione (attestata altresì dal successivo annullamento del Tribunale del riesame) nella parte in cui richiamava procedimenti penali sforniti di qualsivoglia attinenza ai reati ipotizzati, con conseguente illegittima diffusione dei relativi atti di indagine, e violazione del diritto alla riservatezza delle persone impropriamente nominate, tra le quali due magistrati del Tribunale di Potenza, che si ipotizzava avessero una relazione extraconiugale, fatto, pur se eventualmente fondato, del tutto indifferente sia ai fini indiziari, sia ai fini della motivazione dell’atto». Non solo la “scappatella” messa agli atti era un fatto solo presunto, ma era pure ininfluente ai fini dell’indagine. Esattamente come la deposizione resa nell’ambito di un’altra inchiesta (collegata e acquisita agli atti di Toghe lucane) da un sottufficiale dei carabinieri che riferiva di «orge sulla marina di Policoro tra avvocati e signorine compiacenti varie». Pure questa, detto dipietrescamente, non ci azzeccava un fico secco, e per di più si trattava di una notizia “de relato”. Il carabiniere, cioè, l’aveva sentita da un altro che a sua volta l’aveva appresa da altri ancora. Del resto era una specie di cliché nelle indagini del candidato sindaco di Napoli. Il quale, a quanto pare, in carriera è stato parecchio sfortunato con i carabinieri: pure ai tempi Why not ne ebbe uno al suo fianco che la combinò grossa, facendosi indicare per telefono da una femme fatale (manco a dirlo) le persone da mettere sotto controllo, finendo così a sua volta nelle attenzioni della giustizia.
La pietra tombale
In ogni caso, tornando a Toghe lucane, almeno questo pionieristico accenno di guerra ai costumi, questo timido approccio neopuritano alle abitudini sessuali altrui, andrebbe riconosciuto al parlamentare europeo che sconsigliava, sempre nel suo libro, ai suoi amici dell’Italia dei valori di mettersi contro di lui «perché io ho preso cinquecentomila voti». Almeno il lancio della nuova moda giustizialista di confondere peccato e reato andrebbe ascritto al De Magistris di Toghe lucane. Perché per il resto di quella titanica indagine non è rimasto nulla. Lo ha certificato il 19 marzo scorso il gip di Catanzaro Maria Rosaria di Girolamo, archiviando tutto su richiesta del pm Vincenzo Capomolla, che aveva ereditato l’inchiesta. Di nuovo il lavoro di “Gigineddu flop”, come graziosamente è stato ribattezzato in loco De Magistris, è stato bocciato. Bocciato per trenta volte: tanti, infatti, erano gli indagati e altrettante sono state le archiviazioni decise dal giudice terzo. Il solito giudice terzo, la bestia nera dell’ex pm, l’ostacolo sul quale si è schiantata la quasi totalità delle sue indagini (quando riuscivano ad arrivarci, dinanzi a un giudice).
Il reato di amicizia e frequentazione
De Magistris ha raccolto duecentomila pagine di atti, deposizioni, intercettazioni, informative, interrogatori, perquisizioni e via dicendo. Per arrivare dove? A dimostrare che in Lucania c’era una cricca di magistrati, collegati a personaggi di primo piano della politica e delle istituzioni, che influenzava il naturale corso delle cose, tramando in danno di questo e quello, ovviamente col solito corollario di grembiulini e compassi. Era vero? Assolutamente no. Non a caso il pm Capomolla, succeduto a De Magistris, terminato lo studio degli atti processuali, ne chiese subito l’archiviazione: impossibile proseguire un’indagine che aveva inaugurato una fattispecie giuridica non contemplata nel codice, quella del reato (certamente associativo) di «amicizia, conoscenza e frequentazione». Perché di questo s’è trattato. Per De Magistris il fatto che due giudici fossero amici conteneva in sé l’embrione del reato. Idem per il manager della sanità che conoscesse la moglie di un politico o di un alto funzionario della Polizia o di un magistrato. Il giudice Di Girolamo non ha potuto far altro che seppellire definitivamente tutto, senza neppure concedere agli opponenti della richiesta di archiviazione del pm la possibilità di ulteriori indagini. «Sospetti, non prove», è uno dei passaggi del gip. «Le amicizie, le frequentazioni non diventano perciò stesso illecite interferenze. Così come – stando ai provvedimenti giudiziari assunti dalle toghe inquisite – le eventuali archiviazioni di procedimenti penali non possono considerarsi automaticamente favori né le eventuali condanne una ritorsione». E le altre trenta persone trascinate nella vergogna per anni? Che dicono oggi le vittime di questa autentica macchina del fango? Il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, si muove con prudenza ma senza infingimenti, e ricorda a Tempi come, all’emergere sulla stampa delle prime accuse, gli immancabili appelli all’equilibrio nelle valutazioni siano stati subito messi da parte: «Equilibrio avrebbe voluto che, come quando il Corriere della Sera il 26 febbraio 2007 pubblicò la notizia di Toghe lucane dandola non come una ipotesi, ma come manifestazione di inappellabili certezze, quella Basilicata accusata non si fosse mostrata provincialmente succube a una verità rivelata facendo, spesso, da cassa da risonanza».
«Adesso pentitevi davanti a Dio»
Uno dei bersagli preferiti di De Magistris è stato Giancarlo Pittelli, famoso avvocato penalista calabrese, già senatore e oggi deputato del Pdl. Anche lui in questi anni è stato triturato per bene dal noto circolo mediatico-giudiziario. Eppure – commenta per Tempi – «Toghe lucane riposava sul nulla, sul ciarpame dichiarativo raccattato nei bassifondi della società lucana, non disdegnando preti nelle vesti di vendicatori dei soprusi del mondo, noti e pericolosi criminali, pseudo-imprenditori falliti alla ricerca di spericolati inserimenti in contesti finanziari inimmaginabili e magistrati spinti da motivi di vendetta e di contrapposizione professionale». Dopo la morte di Toghe lucane, De Magistris s’è subito trincerato dietro un secco no comment. Ma Pittelli sa già che prima o poi si ripeterà lo schema: «Che cosa dovrebbe dire davanti al solito fallimento? Seguire il metodo di sempre: affermare che è tutto frutto di complotti, di collusioni, di corruzioni, di colletti bianchi, neri e verdi. Non della sua spregiudicatezza. Ma la spregiudicatezza, se paga, come ha pagato per l’assenza o i ritardi dei controlli e delle sanzioni, non paga fino in fondo in politica». Anche con i media, che a lungo hanno vezzeggiato e trattato l’ex pm come un eroe perseguitato, Pittelli è impietoso: «La stampa, quella che ha cavalcato le inchieste ritenendone il gestore nel pieno della ragione, della capacità e della competenza, dovrebbe fare ammenda: ma non è la sola responsabile del disastro». Vincenzo Tufano, ex procuratore generale di Potenza, si concede uno sfogo breve, compendioso ma in un certo senso biblico: «A quelli che hanno provocato questo terremoto e hanno dato dolore alle nostre famiglie e infangato l’onore della Basilicata dico: vergognatevi dinanzi agli uomini e pentitevi dinanzi a Dio». «Ha vinto la giustizia, come sempre», commenta l’ex pm di Potenza Felicia Genovese, ora in servizio alla giudicante di Roma. «Fin dal primo giorno ho scelto la linea del silenzio e la mantengo anche oggi. Ho sempre creduto che la giustizia, alla quale ho dedicato la mia vita, avrebbe fatto il suo corso e alla fine avrebbe prevalso la verità». Il marito della Genovese, Michele Cannizzaro, ex manager dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza, aggiunge: «In Italia non è vero che vince chi urla di più. Mia moglie ed io abbiamo atteso in silenzio per quattro anni che la giustizia facesse il suo corso, e questo silenzio vorrei che ci venisse riconosciuto da chi ci ha condannati brutalmente su alcuni media».
«Il nostro dolore sia un monito»
Decisamente, Cannizzarro rompe la “linea del silenzio” mantenuta dalla moglie magistrato: «Sono amareggiato per quel che può accadere nel paese quando certe inchieste vengono mediaticamente fatte passare per verità assolute, in dispregio dei più elementari princìpi del diritto. Mi chiedo ora: chi pagherà per la feroce gogna mediatica di cui mia moglie e io siamo stati vittime? Chi potrà mai risarcire la distruzione degli equilibri familiari, delle carriere, della nostra onorabilità? Ha ragione Maurizio Gasparri quando afferma che non può finire qui. Il processo parallelo svolto sui media ha dato in pasto agli italiani un’immagine falsa delle nostre persone e della Basilicata, e questo è molto grave. Qualcuno infatti dovrà spiegare il perché di questa violenta aggressione». Il manager della sanità, però, conserva anche una speranza: «Ora aspetto con fiducia che le istituzioni preposte pongano in essere tutte le iniziative previste dalla legge per chiarire definitivamente quanto si è verificato in questa triste e vergognosa vicenda. Per queste accuse false e infamanti siamo stati costretti per alcuni anni a portare una croce che non meritavamo. Vorrei che l’ingiustizia subìta e il dolore vissuto non venissero dimenticati troppo in fretta e che quanto accaduto possa essere da monito per il futuro, perché mai più si verifichi nei confronti di chiunque la devastazione di vita e la sofferenza ingiusta che io e la mia famiglia siamo stati costretti a subire. Ultima cosa: perdono chi ci ha fatto del male ma non chiedetemi di dimenticare le colpe di chi ha tentato di distruggere noi e la nostra famiglia, poiché le ferite noi continueremo a portarle per sempre sulla nostra pelle».
Alla presentazione del libro “L’inganno. Antimafia, Usi e soprusi dei professionisti del bene” di Alessandro Barbano
A Napoli nell’atmosfera del Teatro San Carlo, Alessandro Barbano parla del suo