di Peppe Rinaldi da “Libero”
Ricordate la famosa inchiesta Why Not, il principale mostro giuridico costruito dall’ex pm De Magistris e poi finito nel nulla? Bene: il fallimento del grande moralizzatore non è costato solo alcuni milioni di euro alla macchina della giustizia, la stessa che piange miseria all’apertura di ogni anno giudiziario, ma ha pure bruciato migliaia di posti di lavoro e interrotto un flusso finanziario di diversi milioni di euro. Si tratta di uno degli aspetti della stravagante vicenda giudiziaria italiana, di questa in particolare, che spesso viene trascurato e sul quale si concentrano poco le attenzioni. Il motivo è sempre lo stesso: prevale il senso spettacolare dell’inchiesta, la caccia al colpevole individuato ed “accertato” prima della conclusione delle indagini preliminari. Tutto il resto passa in secondo piano, soprattutto l’effetto materiale e concreto sulla vita delle persone estranee alle indagini.
Prendiamo la Calabria. Questa terra, oltre a tutti i guai che aveva ed ha tuttora, ha sperimentato le conseguenze della distorsione del sistema. Un governo repubblicano fu tramortito quando il sostituto procuratore di Catanzaro, oggi europarlamentare Idv, decise di sradicare il male dal mondo partendo proprio da qui: centocinque fascicoli processuali, centinaia di persone coinvolte, tifosi saltellanti in strada e dinanzi ai tribunali, montagne di pagine di giornali e fiumi di trasmissioni televisive “indignate”, almeno un paio di procure sovrapposte e variamente affaccendate, una sentenza di un giudice terzo che seppellisce tutto. E, man mano che questo avveniva, parallelamente si cancellavano posti di lavoro in quegli stessi ambiti professionali dove i “repubblicani della virtù” erano andati a scavare: senza, alla fine, trovarvi nulla. Com’è successo al polo informatico calabrese, che in quegli anni stava spiccando il volo e, soprattutto, al sistema del lavoro interinale che proprio in Calabria iniziava a presentare un’incidenza significativa nella curva dell’occupazione. Non una soluzione definitiva, certo, ma una prima boccata d’ossigeno.
Nel primo caso, tra i colpi inferti a “Intersiel”, “Cm-Sistemi”, “Met Sviluppo” e “Consorzio Clic” (società per l’innovazione tecnologica cui vengono dedicati appositi capitoli d’indagine) parliamo dei primi mille occupati cancellati indirettamente dall’opera del giustiziere: a capo c’era la manager calabrese Enza Bruno Bossio, colpevole di essere la moglie dell’allora vice presidente della Regione Nicola Adamo e per ciò stesso “interessante” secondo i criteri guida della fase inquirente. Bastò una e-mail scherzosa trovata in un computer per far irrompere sulla scena una loggia massonica a San Marino: ovviamente, non solo si accertò che quella loggia non era mai esistita ma, appena la posizione della manager fu analizzata da un giudice, la donna venne regolarmente assolta. Intanto, i circa 800 lavoratori del Polo informatico distribuiti tra le varie aziende (per un fatturato che si aggirava sui 64 milioni) evaporavano man mano che Why Not bucava il video. Oggi non ne è rimasto granché di quei progetti, una parte è finita nell’orbita di chi guardava con simpatia alla “grande opera di moralizzazione” avviata.
Il cuore dell’indagine, però, era il lavoro interinale, una di quelle forme nuove del mercato dove le aziende affittano personale a seconda delle esigenze. Se c’è chi affitta, c’è chi prende in affitto e, soprattutto, chi viene affittato, cioè i lavoratori.
L’uomo nero in questo caso era Antonio Saladino, ex componente del cda di “Obiettivo Lavoro”, la più grande azienda italiana del settore. Saladino era attuatore della Legge Biagi, aveva ricevuto minacce, per tre anni è stato sotto scorta. Uscirà assolto dalla stragrande maggioranza delle accuse (associazione a delinquere, truffa allo Stato, associazione segreta, peculato, turbativa d’asta) e si beccherà una condanna a due anni per un banale concorso in abuso d’ufficio. Ora aspetta l’Appello.
Ma andiamo al punto, tenendo conto che Why Not è partita tra il 2006 e il 2007, è esplosa nel 2008, è implosa negli anni successivi ed ancora oggi si trascina, stancamente, verso una burocratica conclusione del giudizio ordinario.
Nel 2003 Obiettivo Lavoro fatturava il 12,5% del totale al sud; l’anno dopo era il 10,9%; poi il 14,1%; nel 2006 arriva al 14%, scende nel 2007 al 10,8% fino a crollare all’8,6% nel 2008: vale a dire nell’anno di massima esposizione mediatica. Si consideri che tutte queste cifre erano assorbite per il 65% dalla sola Calabria.
Da 59, 895 milioni di euro di fatturato raggiunti nel 2006, di colpo se ne perdono quasi venti, scendendo a 40, 916. Danaro che ha smesso di circolare in maniera direttamente proporzionale al dilagare dei provvedimenti giudiziari a mezzo stampa. Soldi che servivano, al netto delle spese e dei legittimi profitti dei mediatori, a pagare i lavoratori, seppur flessibili. E quanti sono stati i lavoratori di OL gambizzati dai proiettili dell’allora pm? Diverse migliaia all’anno: nel 2003 nel Mezzogiorno trovano occupazione attraverso questo canale 5.363 persone; nel 2004 sono 5.260; l’anno successivo balzano a 7.380; il picco nel 2006 con 8.880 impieghi; poi la lenta discesa del 2007-2008, che registrano rispettivamente 8.740 e 6.250 lavoratori affittati. Il dato di oggi non è ancora certo perché le statistiche ufficiali si fermano al 2008: ma da indicazioni ufficiose la situazione sarebbe precipitata definitivamente.