di Massimo Bordin da www.ilriformista.it
Dinamite. Il figlio di Don Vito sembra un kamikaze votato al disastro giudiziario. Lo ammette anche Ingroia: le ricostruzioni, dice, derivano tutte dalle sue dichiarazioni «il che rende ardua la verifica giudiziale della attendibilità di tali convincimenti attribuiti a suo padre». E Marco Travaglio se la prende con Piero Grasso.
La dinamite nel giardino è stato il colpo di teatro, la botta di follia. Ma come? Fino a ora per la prima macchina sospetta, per qualche faccia poco raccomandabile che forse ronzava intorno e forse no, Massimo Ciancimino, nel dubbio, chiamava, nell’ordine, il 113, la procura di Palermo e i giornalisti amici per avvertire tutti che le oscure minacce erano sul punto di concretizzarsi. E quando gli recapitano a casa una guantiera dove invece delle pasquali pecorelle di marzapane ci sono una decina di candelotti di dinamite, un numero doppio di detonatori e un paio di micce, cosa fa? Prende la pericolosa guantiera, va in bagno, la mette sotto la doccia e apre l’acqua. Poi, con i candelotti che ancora colano, si munisce di vanga e sotterra il tutto nel giardino di casa. Portato a termine il rischioso interramento parte – senza dire niente a nessuno – insieme alla famiglia, verso Saint-Tropez per passarci la pasqua. Che invece ha passato in galera, per un fastidioso fermo, come ormai è noto a tutti. Eppure, prima dei pizzini e del foto-shop, è su quei candelotti che bisognerebbe interrogarsi. È un genere di merce che si non si trova in commercio facilmente. Delle due l’una: o il giovane Ciancimino non ha contatti con chi maneggia roba del genere – e allora non si vede perché non abbia subito dato l’allarme -, oppure qualche contatto permane, visto che ha ritenuto che la faccenda, con qualche accorgimento da artificiere dilettante, potesse essere aggiornata a dopo il fine settimana di Pasqua. In parole povere il suo comportamento, per come lui stesso l’ha raccontato, appare come quello di chi ha capito perfettamente da dove il messaggio, chiamiamolo così, arrivava e – al contrario di altre volte – poco se ne è preoccupato. A meno che non si pensi che i candelotti in giardino Ciancimino junior se li sia messi da solo. Ipotesi da respingere, fino a che non sia provata, ma che certo dovrebbe essersi affacciata nella testa di chi lo ha interrogato dopo il fermo e si è sentito proporre quel racconto, immediatamente riscontrato. Infatti, una volta tanto, le cose sono state semplici e lineari. I candelotti erano davvero dove il giovanotto sosteneva di averli sotterrati. La storia è senza capo né coda. Come del resto quella che ha prodotto il fermo sulla strada di Saint-Tropez. «Mi dite che è provato che il nome di De Gennaro è ritagliato e fotocopiato da un altro foglio per inserirlo in un elenco di funzionari infedeli? E io che ne so? Io vi ho dato le carte di mio padre, se invece di scrivere nove vocali e consonanti le ha fotocopiate e aggiunte, io che posso farci?». Uno che si difende così non può essere definito in altro modo che un kamikaze, votato a sicuro disastro giudiziario. E come si può concepire una condotta del genere? Come spiegarsela? Ecco, qui soccorre una forma deteriore di sicilianismo. La soluzione dell’enigma? Una, nessuna, centomila. Pirandellismo d’accatto? Eppure abbiamo letto qualcosa di simile a commento del discusso fermo. Del resto che si può dire quando si è scritto un libro insieme al giovanotto e lo si è portato in un tour nelle principali librerie di sinistra dove ragazzi in assoluta buona fede si facevano firmare – orgogliosi dal nuovo eroe dell’antimafia – la copia del libro sulle sue gesta appena acquistato? E nessuno che gli avesse chiesto: «Ma tuo padre degli omicidi dei suoi colleghi di partito Michele Reina, Piersanti Mattarella, Giuseppe Insalaco non ti ha mai detto niente? E dell’omicidio del procuratore Costa? E di Sindona, a parte le cose che sappiamo tutti perché leggiamo La Repubblica e vediamo La storia siamo noi?». Nessuno. Poveri ragazzi, perché avrebbero dovuto chiedere, visto che curiosità del genere non avevano avuto i magistrati e nemmeno tanti bravi giornalisti nei loro libri sul giovane eroe? I libri, in questa storia, sono un po’ come i candelotti di dinamite: un dettaglio, un anfratto che, se appena esplorato, rivela presenze inquietanti. Non bastava il libro su cui si è fondato il “Ciancimino tour”. Fresco di stampa è arrivata in libreria anche «la prima inchiesta sul livello più alto della trattativa fra Stato e mafia. Da un elenco firmato da Vito Ciancimino, che li accusa di essere i grandi burattinai italiani, uomini delle istituzioni e dei Servizi sui cui atti nessuno aveva ancora fatto chiarezza». Presentato così il libro è intitolato Il quarto livello, quello dei funzionari infedeli. Sul terzo livello, quello dei politici, ci sono pareri contrastanti e nell’introduzione viene lealmente ammesso. Il procuratore aggiunto Ingroia nelle dodici pagine di introduzione scrive fra l’altro: «…Le ricostruzioni e interpretazioni sul Quarto livello derivano tutte dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e da un appunto presentato da lui stesso, e che nulla di tutto ciò, secondo le sue stesse dichiarazioni è frutto di sua conoscenza diretta, bensì derivata dal padre Vito (…) Il che rende ardua, se non impossibile, la verifica giudiziale dell’attendibilità di tali convincimenti attribuiti a Vito Ciancimino». In parole povere, se le parole hanno un senso, il procuratore aggiunto ci dice che tutto ciò che il giovane Ciancimino ha prodotto delle carte attribuite al padre è molto interessante ma dal punto di vista giudiziario è impossibile cavarne qualcosa. Infatti, la sua introduzione si conclude con una dissertazione sul concetto di «ragion di Stato» e sui limiti della giurisdizione. Gli arcana imperii del dopoguerra iniziano per il procuratore aggiunto dalla strage di Portella della ginestra e dalla tragica epopea del bandito Giuliano, la cui salma non a caso Ingroia ha fatto recentemente riesumare. Può essere abbia ragione, generalmente parlando e mettendo da parte la macabra iniziativa, solo che tutto questo per le spalle del giovane Ciancimino è un peso eccessivo.
Dunque, meglio avvicinare la cronologia ai nostri giorni e alle stragi del ’92 e ‘93. Le carte Ciancimino, par di capire, servono comunque a fornire un retroterra per quell’oscuro periodo. E pur avendo a disposizione solo 12 pagine, l’aggiunto Ingroia riesce a stupire il lettore attento e informato. La presunta trattativa ha un testo chiave, che tutto potrebbe spiegare se solo venisse ritrovato: l’agenda rossa del giudice Borsellino. L’ipotesi che di fronte a una così grave deviazione delle istituzioni le contromisure di Borsellino possano essersi limitate a qualche appunto su una agenda evidentemente viene ritenuta non offensiva nei confronti della memoria del giudice e dell’intelligenza di tutti. L’agenda non si trova, ma scrive Ingroia: «È certo che sparì nelle mani di un uomo delle istituzioni». Eccolo il quarto livello all’opera. Solo che c’è stato un processo e una sentenza della Cassazione che non solo ha assolto «l’uomo delle istituzioni» accusato dell’appropriazione indebita ma ha messo nero su bianco il dubbio che Borsellino, il giorno della sua morte, avesse con sé la famosa agenda. Altro che certezze. Pensare che basti una prova di falsificazione di una carta per mettere un punto sulla questione Ciancimino, quando per l’agenda non è bastata la Corte di Cassazione, è decisamente da ingenui. Non si tratta nemmeno di gelosie fra procure, che in qualche modo un’istanza superiore potrebbe risolvere. L’unico articolo importante, perché rivelatore, su tutta la questione l’ha scritto Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano il giorno di Pasqua. La tesi prospettata al lettore non fa fare a Ciancimino junior la figura dell’eroe, anzi è rappresentato come uno che, di fronte a stringenti domande, «sbianca, piange, trema, mente, poi è costretto a vuotare il sacco». Ma gli inflessibili indagatori sono quelli della nuova Procura di Palermo, retta da Messineo con Ingroia fra gli aggiunti. Perché la precedente gestione del procuratore Grasso (attuale procuratore nazionale antimafia), secondo la ricostruzione di Travaglio, aveva accuratamente evitato di fare al giovane Ciancimino le domande giuste, e addirittura fatto scomparire dagli atti documenti importanti.
Così, i maneggi col foto-shop del figlio del sindaco mafioso finiscono per essere piccola cosa rispetto all’enormità del problema che è messo all’ordine del giorno dall’articolo di Travaglio: il massimo vertice dell’iniziativa giudiziaria contro Cosa Nostra è stato in realtà l’inquinatore vero dell’indagine scaturita dalle carte Ciancimino. La questione è ormai antica e nasce dalla polemica sul processo Cuffaro. Allora il procuratore di Palermo Piero Grasso venne messo in croce da Travaglio e altri giornalisti sull’Unità e su La Repubblica (nella sua cronaca di Palermo) perché non intendeva contestare all’allora governatore siciliano il reato di concorso esterno con la mafia e intendeva circoscrivere il capo di imputazione al favoreggiamento aggravato dal fatto che era commesso a vantaggio di mafiosi. Disputa apparentemente bizantina che aveva però una ricaduta politica visto che alcuni settori della sinistra pensavano di poter chiedere le dimissioni di Cuffaro sulla base del semplice capo di imputazione. Grasso tenne duro e i fatti gli dettero ragione. La condanna di Cuffaro fu ottenuta e il governatore dovette comunque dimettersi. Dopo la condanna, però. Non prima. Parrà strano ma invece di scusarsi, certi politici di infimo profilo e certi giornalisti molto bravi al procuratore Grasso non l’hanno ancora perdonata. E nella vicenda del giovane Ciancimino si scontrano ancora una volta due concezioni diverse della lotta alla mafia