Il tema della garanzia di un reddito universale è diventato così attuale da pesare, finalmente, nel dibattito politico italiano. Una prima forma di sostegno al reddito è stata introdotta nel testo della legge di stabilità votato al Senato.
La misura proposta dal governo e approvata dall’assemblea di Palazzo Madama è un primo importante passo (seppur con risorse insufficienti), che risponde a esigenze profonde della nostra società. La povertà è cresciuta in tutti i Paesi avanzati. Una povertà che non riguarda più soltanto gli emarginati e gli esclusi ma investe persone e famiglie ai quali era riservato un livello decente di esistenza.
Sono questi gli anni dei working poors, lavoratori precari e occasionali. Nel 2012, sono 3 milioni 232 mila le famiglie in condizione di povertà relativa per un totale di 9 milioni 563 mila individui (il 15,8% dell’intera popolazione). Negli ultimi tre anni evidenti segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: l’incidenza di povertà è passata dal 4,9% al 6,2% nel Nord, dal 6,4% al 7,1% nel Centro e dal 23,3% al 26,2% nel Mezzogiorno. La necessità di garantire condizioni materiali, attraverso un reddito di base, che consentano una vita dignitosa nella pienezza dei diritti, deve essere il presupposto di qualsiasi modello sociale e di sviluppo.
Non è un tema nuovo, almeno in Europa. Anzi l’UE da anni ci invita ad adottare uno strumento simile come misura anticiclica. La risoluzione approvata dal Parlamento europeo del 20 ottobre del 2010 parla del “ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società più inclusiva”. Come noto solo l’Italia e la Grecia sono i due Paesi del nucleo storico della UE a non prevedere forme di reddito minimo o di basic income. Si tratta di una misura che ha un costo, che non può essere affrontato senza un ripensamento dei nostri ammortizzatori sociali, in particolare considerando che da più di sei anni viene rinnovata la cassa integrazione in deroga.
La parola “deroga” stessa implica che la misura sarebbe dovuta essere di carattere emergenziale, e non permanente. Appare dunque urgente una riforma in cui le garanzie sociali siano estese a tutti, secondo il principio che si debba tutelare sia chi il lavoro l’ha perso sia chi invece lo sta cercando. E’ necessaria, a questo fine, una riforma radicale delle strutture che devono mediare tra le istituzioni e le persone che cercano lavoro, cioè i centri per l’impiego.
Pensiamo a un sistema più semplice che, in prospettiva, diventi anche meno costoso, come dimostrano le esperienze in atto in altri Paesi europei. Su questo terreno è cresciuto negli ultimi tempi un dibattito ampio che sta coinvolgendo numerosi soggetti. In questa direzione va l’appello promosso dalle ACLI che propone al governo “una grande alleanza” per battere la povertà, in cui si chiede l’avvio nel 2014 di un piano pluriennale per l’introduzione del “reddito di inclusione”.
L’appello, firmato anche dai sindacati oltre che da numerose associazioni laiche e cattoliche impegnate nel sociale, prevede uno stanziamento di 900 milioni di euro che includa anche gli strumenti finora adottati (ad esempio la social card) e coinvolga pienamente nell’attuazione oltre che le articolazioni periferiche dello Stato, anche il terzo settore. Una proposta che coincide, sostanzialmente, con quella formulata dalla Commissione Guerra insediata dal Ministro Giovannini, che ha concluso i suoi lavori poche settimane fa e che ha sancito la necessità di introdurre in Italia una misura di inclusione sociale universale, trovando proprio nella misura della legge di stabilità una prima concreta applicazione.
I Parlamentari:
Enza Bruno Bossio
Marianna Madia
Alessia Rotta
Miriam Cominelli