In Palestina per la pace: intervista all’on. Enza Bruno Bossio
di Luigi Caputo
L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali: a sancirlo è l’articolo 11 della nostra Costituzione. Se parlare di guerra alle nostre latitudini può sembrare fortunatamente anacronistico, basta allargare l’orizzonte e imbattersi in situazioni nelle quali invece il tema si presenta come di stringente attualità. Il caso più eclatante in questi giorni è rappresentato da ciò che giunge dal fronte mediorientale, dove il focolaio di guerra tra israeliani e palestinesi è riesploso con terribile violenza, seminando terrore e morte nei territori vicini alla striscia di Gaza. In quei luoghi si è recata, dal 1° al 4 agosto scorsi, una delegazione dei “Parlamentari per la pace“, un gruppo di deputati e senatori di diverso orientamento politico impegnati a sostenere iniziative legislative e di carattere politico e culturale sui temi della pace, della nonviolenza e del disarmo, proprio in nome dell’articolo 11 della nostra Costituzione, ma anche della Carta delle Nazioni Unite e per sostenere l’iniziativa di tutti gli organismi impegnati a prevenire i conflitti e a costruire la pace.
Della delegazione che si è recata in Palestina ha fatto parte l’on. Enza Bruno Bossio, eletta in Calabria nelle file del PD, alla quale abbiamo rivolto alcune domande.
Onorevole, quali luoghi avete visitato?
Siamo stati a Gerusalemme, Ramallah, Hebron, Betlemme, ma purtroppo non siamo riusciti ad andare a Gaza, in quanto off limits e poiché non volevamo creare problemi. Abbiamo visitato luoghi dove si vive l’oppressione di un popolo su un altro. Che è poi l’elemento scatenante delle guerre. Anche di questa guerra. Toccare da vicino questa situazione ci consente di agire per sensibilizzare con maggiore forza Parlamento e Governo.
Il suo collega Davide Mattiello, che ha fatto parte con lei della delegazione, ha scritto che il vostro intento è stato quello di “costruire relazioni umane forti tra israeliani e palestinesi che cercano la pace attraverso il dialogo. In altre parole, costruire capitale umano”. Un processo che richiede tempo e risorse, e, soprattutto, disponibilità delle parti interessate ad accettare il dialogo. Avete trovato questa disponibilità?
Abbiamo incontrato attivisti palestinesi e israeliani. Parlamentari dell’autorità nazionale palestinese, di Al Fatah e parlamentari della sinistra israeliana. Tutti vogliono la pace e ciascuno di coloro che abbiamo incontrato sa che la pace è possibile solo mettendo da parte l’integralismo. Ma non accadrà se non si interpone una forza internazionale di pace che costruisca le condizioni per la nascita dello Stato della Palestina. In questo momento c’è solo lo Stato d’Israele e anche i territori assegnati nel 1967 ai palestinesi sono stati via via occupati dai cosiddetti coloni, che hanno creato nel giro di pochi mesi intere città (le cosiddette colonie) dove prima c’erano villaggi palestinesi. Se non si arriva concretamente a “due popoli due stati“, il rischio di apartheid per il popolo palestinese è molto forte. Lo abbiamo visto (e filmato) con i nostri occhi ad Hebron, dove in alcune strade della città i palestinesi non possono nemmeno transitare e decine di case e negozi sono stati chiusi perché ai palestinesi è vietato viverci e lavorare. Eppure Hebron è in Cisgiordania, è Palestina!
Qual è il sentimento che più di tutte ha provato durante queste giornate?
La rabbia e l’impotenza. La rabbia di una terra santa che diventa maledetta e l’impotenza di una comunità internazionale subalterna alla realpolitik invece che alla soluzione dei problemi.
San Giovanni Paolo II diceva “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Che senso ha parlare di pace, giustizia e perdono nel contesto in cui si è trovata?
Io credo che il tema sia proprio la giustizia. Dappertutto, ma soprattutto nel Medio Oriente, se la barra fosse la giustizia, ovvero il rispetto dei diritti di ciascun individuo e dell’autodeterminazione dei popoli, si sarebbe già usciti da molti anni da questa assurda spirale di violenza.
Papa Francesco, lo scorso giugno, aveva riunito in Vaticano Peres e Abu Mazen, i massimi rappresentanti politici di Israele e Palestina. Sembravano esserci le giuste condizioni per una soluzione pacifica del conflitto. Perché questo non è accaduto?
Non credo sia un caso che la guerra si sia scatenata dopo quell’incontro. Dopo quell’incontro c’è stato il rapimento e l’uccisione dei ragazzi israeliani figli di coloni, e poi la ritorsione con la morte di un ragazzo palestinese bruciato vivo. Tutto questo succedeva ad Hebron. Ma sono andati a bombardare Gaza. Perché? Perchè lì c’è Hamas, perché Hamas lancia razzi contro le città israeliane. Ma anche perché è più facile distruggere Gaza. Gaza è un fazzoletto di terra di 360 km quadrati dove vivono quasi 2 milioni di persone. La Calabria che ha lo stesso numero di abitanti è 15.000 km quadrati. E da Gaza non si può scappare. Non ci sono varchi per uscire da terra, c’è il controllo totale dal mare. E con le nuove bombe a strascico che una cooperatrice italiana, appena arrivata da Gaza, ci ha descritto, non si salva nessuno. Quasi 2.000 morti, oltre 10.000 feriti, più di 300.000 sfollati che dormono nelle scuole, senza luce, senza acqua, senza cibo. L’ultimo giorno della nostra visita siamo andati a Ramallah a sostenere volontarie e volontari della Croce Rossa palestinese che portavano cibi e medicine a Gaza. Per ogni viaggio occorrono almeno tre giorni per percorrere 100 km, perché anche i corridoi umanitari sono chiusi. La verità è che Nethanyahu ed Hamas sono due facce della stessa medaglia: sono quelli che condizionano questo mondo ed è la loro politica di odio e scontro permanente che bisogna sconfiggere.
Occorre ricordare che al presidente israeliano Shimon Peres è stato assegnato – assieme a Rabin e ad Arafat – il Premio Nobel per la Pace, nel 1994. A distanza di vent’anni, dopo gli attacchi israeliani di questi giorni, che senso ha quel Premio?
In questi venti anni, secondo le analisi degli stessi esponenti della sinistra israeliana, purtroppo la società ebraica si è impoverita culturalmente. Dopo l’assassinio di Rabin, hanno prevalso le forze peggiori. Quelle dei coloni che provano ad occupare e togliere sempre più terre ai palestinesi fino alla loro espulsione totale. Che ovviamente non avverrà, e da qui la spirale continua di guerre e distruzioni.
Secondo “Save The Children”, a Gaza c’è un milione di bambini senz’acqua. Ma come è possibile che l’Onu e le organizzazioni umanitarie siano impotenti di fronte a questo scempio?
Purtroppo l’ONU ha tardato molto nel prendere una posizione molto netta di condanna per le evidenti e drammatiche violazioni dei diritti umani e le organizzazioni umanitarie, come dicevo, hanno grosse difficoltà a svolgere il loro lavoro. Tra le scuole rase al suolo c’è quella di “Vento di Terra”, una Ong italiana che continua a lavorare a Gaza nonostante questa situazione. Abbiamo incontrato i rappresentanti di queste organizzazioni e tutti ci hanno chiesto: tornate in Italia e denunciate quello che avete visto. E lo stesso ci ha detto Don Mario, prete coraggioso che assiste bambini disabili palestinesi a Betlemme e che non riesce ad ottenere i visti dal governo israeliano per i volontari italiani che vogliono andare a lavorare presso la sua comunità.
In Italia, com’era prevedibile, si sono create fazioni opposte, tra chi difende la scelta israeliana e chi invece accusa Israele di genocidio. Ci si chiede come una nazione che ha subito l’Olocausto possa comportarsi da oppressore su un nemico inerme. Cosa pensa in proposito?
Io non credo che ci si debba schierare da una parte o dall’altra. Il governo di Hamas a Gaza che nasce da un colpo di stato del 2007 e che non risponde nemmeno all’Autorità Nazionale Palestinese, è un governo basato sul terrorismo e sull’uso della violenza, ma la responsabilità della sicurezza, anche a Gaza, è dell’unico Stato che oggi esiste ed è quello israeliano. Per questo non ha senso intervenire con le bombe verso quei civili che lo Stato dovrebbe proteggere anche da Hamas. Nè possiamo accettare che sia considerato politicamente scorretto ricordare agli israeliani il dramma dell’Olocausto quando si distrugge un intero popolo inerme. Dovrebbe essere proprio quel dolore a temprare la coscienza collettiva di un popolo tanto da rifuggirne per sempre.
Per me l’Olocausto resta il male assoluto che non può e non deve essere dimenticato. Proprio un paio di mesi fa ho tenuto alla Camera una iniziativa sul campo di concentramento di Tarsia, in Calabria, con l’intento di mantenere alta l’attenzione contro ogni forma di razzismo e di antisemitismo. Così come a novembre parteciperò con una delegazione parlamentare (sempre a spese nostre, come in questo viaggio) ad una visita al campo di concentramento di Auschiwtz: per non dimenticare!
La vostra è una missione umanitaria prima ancora che una missione politica. Mi piace ricordare che un altro papa, Paolo VI, definiva la politica come “la più alta forma di carità”. Ma la politica di oggi può davvero aiutare le persone a vivere meglio? Pensiamo ai luoghi martoriati del Medio Oriente, ma pensiamo anche all’Italia, ai contesti di degrado e ingiustizia sociale…
Io penso che la politica, quella vera, quella che adempie al proprio dovere, che è la rappresentanza dei diritti del popolo che rappresenta, sia la forma più alta di carità, perché diventa uno strumento per la giustizia. Nei propri contesti e anche in quelli internazionali. E non c’è competizione nell’occuparsi delle ingiustizie locali piuttosto che di quelle internazionali. Viviamo in un mondo globale, nel quale ogni tassello del mosaico condiziona gli altri e abbiamo il dovere di non trascurare nulla.
In questi giorni, il focolaio in Medio Oriente non è purtroppo l’unico. Per esempio, restano fronti aperti in Siria e in Libia. Come può l’Italia, e con lei l’Europa, agire perché questi focolai bellici cessino al più presto?
È chiaro che chi può agire è soprattutto il governo. Noi parlamentari possiamo provare a stimolare il dibattito nelle sedi istituzionali e mobilitare l’opinione pubblica. Per quanto mi riguarda penso che l’Italia, proprio nel momento in cui presiede il semestre europeo, debba operare per creare le condizioni di una generale pacificazione dell’altra sponda del Mediterraneo. Dobbiamo tornare a pensare al Mediterraneo come ad un mare di pace e di cooperazione, attraverso cui fare passare sviluppo e solidarietà e non, come purtroppo avviene oggi, esseri umani disperati e morte.
Questo ruolo nel Mediterraneo e rispetto al mondo arabo l’Italia lo ha sempre svolto, dal dopoguerra ad oggi. Credo che si debba adeguatamente rilanciarlo aggiornandolo al nuovo contesto politico che si è venuto a determinare in molti di questi paesi dopo la cosiddetta “primavera araba” che, indubbiamente, ha creato nuove contraddizioni in un contesto già di per sé difficile.
Già, il Mediterraneo resta elemento di morte, a causa degli sbarchi di immigrati che si concludono spesso in stragi. Come si possono arginare queste situazioni di disagio?
L’ho detto. Lavorare per pacificare i paesi in guerra dell’altra sponda. La comunità internazionale, l’ONU e l’Europa devono assumersi le proprie responsabilità. Lo spazio per la realpolitik si fa sempre più angusto e, oltre a non interrompere la spirale della violenza non aiuta neanche gli interessi più generali e strategici degli attori fondamentali di quest’area. Girare la testa dall’altra parte, nascondere la polvere sotto il tappeto non sono soluzioni ma, al massimo, possono mettere tra parentesi cattive coscienze. Bisogna, invece, creare uno spazio comune. Chiedere all’Europa di fare fino in fondo la propria parte perché il Mediterraneo è un mare europeo, è il confine d’Europa, non solo d’Italia. Anche per questo siamo andati in Palestina.
Cosa porterà di questa esperienza nella sua vita quotidiana? Cosa racconterà ai suoi figli?
È stata un’esperienza sconvolgente. Confesso che sarà difficile raccontarla ma devo riuscirci. Lo devo alla sofferenza e alle ingiustizie che ho visto e che ho filmato e che resteranno per sempre nella mia testa e soprattutto nel mio cuore. Lo devo ai miei figli e in particolare a mia figlia, che per prima mi ha chiesto: ma voi, deputati italiani, non fate nulla per quello che sta succedendo a Gaza? Non so se sono riuscita a fare qualcosa. Cercherò, ripeto, di riuscire a raccontare quello che ho visto a quante più persone potrò con l’ausilio dei media e dei social network. E poi, con i colleghi dell’intergruppo “Parlamentari per la pace” attiveremo tutte le iniziative istituzionalmente previste per cercare di dare una mano concreta a chi sta vivendo questa assurda tragedia.
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