Come è ormai noto il primo articolo della nostra Costituzione recita che l’Italia è “una repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Quanto sia stridente questo principio fondamentale così solennemente sancito nella nostra Carta ce lo confermano i dati Istat diffusi in questi giorni e relativi al I semestre del 2014.
I disoccupati sono ormai il 13,6%: in cifra assoluta sono senza lavoro tre milioni e mezzo di persone, mai così tante dal 1977 ad oggi.
A questa enorme massa si devono aggiungere circa due milioni di soggetti che l’Istat classifica con il termine di “scoraggiati”, persone cioè, che il lavoro hanno persino smesso di cercarlo (+15,5 % rispetto allo stesso periodo del 2013).
Ma i dati ci consegnano anche quella che il presidente della SVIMEZ ha definito la”eutanasia del Mezzogiorno”. In questo pezzo d’Italia la disoccupazione tocca il 21,7%, con il 61 per cento dei giovani tra i 15 ed i 24 anni.
Quale futuro può avere un Paese che non riesce a dare lavoro ad un giovane su due e addirittura a 6 su 10 se questi hanno avuto la sfortuna di nascere nelle province meridionali ?
Quale futuro può avere un Paese dove la povertà aggredisce ormai ceti sociali che in passato ne erano rimasti esclusi e sta diventando un fenomeno di massa visto che interessa circa il 16 % della popolazione, e il 27 % nel Mezzogiorno ?
Viviamo in un Paese dove il lavoro diminuisce sempre di più come dimostra il dato che parla di oltre un milione e 130mila famiglie (+175mila rispetto al 2012) che nel 2014 non percepiscono alcun reddito da lavoro. Famiglie di cui quasi mezzo milione (491mila) sono coppie senza figli mentre 213mila sono formate da un solo genitore, per lo più una donna, in cui tutti i componenti “attivi” non partecipano al mercato del lavoro e che si mantengono con denaro che proviene da pensioni, da indennità e sussidi di disoccupazione o da rendite di affitto di immobili.
Inutile dire che anche in questo caso la situazione peggiore è al Sud dove sono ben 598mila le famiglie i cui componenti attivi sono disoccupati.
Non solo meno lavoro, ma anche più precario visto che su 22 milioni di lavoratori solo il 53%, vale a dire poco più di 12 milioni, ha un posto che si può definire stabile e a tempo pieno.
Una precarietà che è ormai trasversale, perché interessa tutti i settori del lavoro: il lavoratore del call center, la badante, l’informatico, il ricercatore tutti oggi possono definirsi precari.
Su questo quadro tanto fosco influiscono diversi fattori: una crisi che le politiche di austerità europee hanno contribuito ad accentuare, la rigidità burocratica ed amministrativa del nostro sistema-paese che rappresenta un freno decisivo allo sviluppo e, anche, un modello di welfare nato in un’altra epoca ed ancora pervaso dalla illusione della piena occupazione.
Una illusione, è bene dirlo, che pervade anche lo stesso approccio con il quale generalmente ci si accosta al problema del lavoro.
Infatti, nel modello di produzione fordista che ha caratterizzato tutto il Novecento si accedeva ad un lavoro che prevedeva prestazioni a tempo “indeterminato” con la garanzia mensile di un salario. Lavoro e reddito, dunque, erano strettamente connessi tra loro. Lo stesso sistema di welfare si legava, dunque, al lavoro, per cui bisognava garantire al lavoratore licenziato un reddito nel tempo necessario, pensato comunque come breve, di trovare un’altra occupazione.
Le indennità di disoccupazione, il sistema previdenziale, gli ammortizzatori sociali in genere continuano a risentire di questo rapporto con un modello produttivo ormai tramontato.
Oggi i nostri ammortizzatori sociali (CIG, assegni ordinari di disoccupazione, assegni di mobilità) costano circa 18 miliardi di euro all’anno e proteggono solo un lavoratore su quattro.
Può definirsi tale un welfare che lascia senza tutele l’enorme platea di inoccupati, di tutti coloro che non hanno mai incontrato il lavoro o di coloro che lo incontrano in forme irregolari e la massa sempre più grande degli inattivi e degli “scoraggiati”? Basterebbe disporre di una quota aggiuntiva annuale di 7 miliardi di euro per una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.
E’ necessario, dunque, un radicale cambiamento di mentalità per cogliere come opportunità le nuove dinamiche del mercato del lavoro, considerando che (come dimostrano i dati sopraesposti) il modello di lavoro “novecentesco” è destinato a sparire e/o a trasformarsi sempre più profondamente.
Una efficace riconversione del modello di sviluppo si dovrà basare su investimenti significativi nel campo dell’innovazione tecnologica e sulla nuova agenda che ci detta la rivoluzione digitale (si calcola che in quest’ambito si creeranno in Europa nel breve periodo circa un milione di posti di lavoro e tre milioni nel medio periodo).
Un modello di sviluppo che dovrà fare leva su un moderno utilizzo del territorio, a partire dalla sua tutela e messa in sicurezza, e sulla valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico e culturale.
Un modello di sviluppo che dovrà anche legarsi ad una nuova concezione del lavoro e ad un welfare che assuma nelle tutele caratteri universalistici.
Il lavoro, anche quando inteso nella sua centralità, si esplica sempre più all’interno di un più ampio e spontaneo sistema di relazioni sociali, è solo una parte e non è più individuato come l’unico elemento sul quale è possibile valutare la “produttività sociale” dell’individuo.
In questo senso non possiamo più considerare il lavoro un valore in sé. È piuttosto il complesso di capacità, competenze, relazioni sociali formali ed informali che ciascun individuo porta con sé il valore attraverso cui affermare la propria identità e la propria capacità di competere.
Per tutti questi motivi forse dovremmo riscrivere l’art. 1 della nostra Costituzione sostituendo alla parola “lavoro” la frase “dignità dell’individuo”, e rendendo “giustiziabile” oltre che la tutela dei diritti del lavoro, il diritto al reddito.
La mia intervista per Il Riformista sulle sfide del nuovo PD: battersi per una giustizia giusta
Il nuovo PD si batta anche per il diritto alla giustizia giusta.