“E ora mi attendo le scuse di Zingaretti”.

Intervento su “Il Riformista” del 6 gennaio 2021

Un anno fa il segretario del PD disse che stava dalla parte di Gratteri, esponendo noi indagati alla gogna giustizialista. Oggi che le accuse sono cadute che cosa ha da dire? La politica è subalterna al potere della magistratura.

 ll flop: Con la sentenza del 4 gennaio finisce la storia dell’ennesimo flop giudiziario. Ma purtroppo questa vicenda si intreccia con quella della politica nazionale quando il capo dei dem interviene ad Agorà e lascia soli Oliverio e noi…

Era settembre 2018 quando un’affollata assemblea di sindaci e dirigenti di partito, chiese ad Oliverio di ricandidarsi alle imminenti elezioni regionali. Ebbe inizio, così, una campagna elettorale che era già segnata dalla vittoria del centrosinistra. Furono mesi di iniziative amministrative e di rilancio degli investimenti che preparavano la Calabria verso una nuova stagione. Ma la notte del 17 dicembre 2018 Oliverio fu “obbligato alla dimora” nel suo Comune, San Giovanni in Fiore, sulla base di accuse già allora incomprensibili e senza nemmeno l’ombra del reato o dell’abuso. Un confino che durò fino a quando la sentenza della Cassazione cancellò la misura cautelare, con la motivazione di un “chiaro pregiudizio accusatorio”. Nonostante la netta presa di posizione della Cassazione, i Pm di Catanzaro non si fermarono e chiusero le indagini con la grave accusa di corruzione, coinvolgendo anche me e Nicola Adamo. Con la sentenza del 4 gennaio 2020 finisce la storia dell’ennesimo flop giudiziario, sancito dal Gup del tribunale di Catanzaro “perché il fatto non sussiste”. Ma questo flop giudiziario purtroppo si è intrecciato con la vicenda politica nazionale che parte dall’insediamento di Nicola Zingaretti a segretario nazionale del Pd. Da subito si intuisce lo scarso coraggio del neo segretario, che tace prima sulla misura cautelare e poi sulla sentenza della Cassazione, mentre Oliverio, reinsediato nelle sue funzioni, lavora alacremente per vincere una campagna elettorale sempre più insidiosa. In questo contesto, inopinatamente, l’8 agosto del 2019, Zingaretti interviene sui Rai3, ad Agora e dichiara: «In Calabria c’è un’indagine, la Procura sta indagando. Io credo sia tempo opportuno, anche se è stato fatto molto, di voltare pagina, di costruire per le prossime amministrative calabresi un progetto che allarghi, che metta più forze e anche nuove energie in campo, che individui una candidatura nuova, più unitaria». Ed è proprio qui, in queste parole, che si materializza il vulnus nel principio della separazione dei poteri, che sta a fondamento del sistema democratico: il segretario nazionale di un partito progressista decide, motu proprio, di non proporre più il presidente uscente, voluto dalla maggioranza dei dirigenti, iscritti, militanti del PD come candidato alle ormai imminenti elezioni regionali, perché “c’è un’indagine”. E dopo qualche tempo, sull’onda del tam tam del gossip e delle iniziative giudiziarie annuncia, in camice bianco, nella fabbrica del tonno, la candidatura di Pippo Callipo, imprenditore di centrodestra. Una candidatura fortemente subordinata al clima generato dalle iniziative della Procura della repubblica. Una candidatura che non aggrega né il movimento 5 stelle, né l’altro schieramento populista, ed è contrastata dalle stesse “sardine”. Una designazione evidentemente ancor meno di allargamento di quella di Oliverio. In questa vicenda, dunque, la scelta politica libera non c’è mai stata. Per questo la storia più importante oggi non è data dalla inevitabile assoluzione mia, del presidente Oliverio, di Nicola Adamo, per un reato mai commesso perché: “il fatto non sussiste”, ma dalla mesta realtà di un partito che avrebbe l’ambizione di cambiare il mondo, ma che, di fronte ad una pubblica accusa, non è in grado di esprimersi con l’autonomia che si richiede ad un soggetto politico. È proprio su questo che mi piacerebbe che Zingaretti riflettesse. Innanzitutto sarebbe importante che con la stessa veemenza con la quale lui e i suoi epigoni un anno fa hanno dichiarato: “siamo dalla parte di Gratteri”, esponendo tanti di noi allo sciacallaggio e alla gogna giustizialista, oggi chiedessero scusa. Sarebbero apprezzabili le scuse perché ristabilirebbero il senso di comunità che il PD non ha più. Ma la riflessione più importante dovrebbe riguardare la capacità di distinguere la funzione politica ed istituzionale da quella della magistratura. Una formazione politica che non è in grado di assumersi le proprie responsabilità e non riesce a valutare, in attesa delle sentenze, la realtà dei fatti sottoposti ad indagini, rinuncia alla dignità che la Costituzione repubblicana assegna alla funzione del partito politico. Non si tratta di sostituirsi alla magistratura o di disconoscere la legittimità del procedimento penale, ma si tratta, al contrario, di impedire le incursioni delle iniziative giudiziarie nelle vicende politiche ed istituzionali. Se vogliamo evitare che un avviso di garanzia, da elemento a tutela del cittadino, diventi una condanna mediatica certa, è giusto che le sentenze (quelle passate in giudicato) non si discutano, ma le indagini sì, eccome!

Enza Bruno Bossio (Deputata del Partito Democratico)

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