UN FILO LEGA TORTORA E LUCA LA IENA


di Antonello Piroso da “Il Riformista”

Il fenomeno si è ripetuto. La7 ha deciso di dedicare un’intera serata alla riproposizione del caso Tortora. Prima con la messa in onda del film “Un uomo perbene”, in cui il ruolo del conduttore televisivo è interpretato da Michele Placido, poi con quella del monologo che nel 2008 ho offerto alla platea dei partecipanti dell’estivo “VeDrò” di Enrico Letta. Ora come allora, la ricostruzione di quel dramma ha colpito molti, che mi hanno telefonato o scritto per manifestare la loro incredulità. «Ma come è stata possibile una tragedia di tale portata? Perché quei magistrati hanno scientificamente distrutto l’immagine, la reputazione, la vita di ET? Perché la gran parte della stampa e dei commentatori ha sposato le tesi dell’accusa, facendo anch’essi strame dell’esistenza del presentatore? Perché, alla fine, nessuno ha pagato per una vicenda che si è conclusa con la prematura scomparsa di Tortora, che ha sviluppato una patologia tumorale, o che forse è semplicemente morto, per dirla con Giorgio Bocca, di crepacuore?…». Se queste sono state, ieri e tre anni fa, le emozioni e le reazioni suscitate, a colpirmi sono stati tuttavia i commenti che facevano seguito a quegli stessi quesiti: «Complimenti per il coraggio dimostrato», «Piroso, ma chi glielo fa fare di attaccare la magistratura? Gliene verranno solo rogne», «Grazie per aver rotto la cappa di insopportabile conformismo che racconta la storia solo a senso unico», fino al vagamente iettatorio: «Ma non le ha insegnato niente Craxi? Lo ha ricordato lei nel suo racconto: il segretario del Psi si tenne alla larga dal caso Tortora sostenendo che chi in Italia tocca la casta togata, muore». Frasi che mi hanno dato da pensare, tanto più perché non provenienti da miliziani berlusconiani in servizio permanente effettivo in difesa del loro leader contro i giudici che in questi anni lo hanno “perseguitato”, ma quasi tutti da amici, colleghi, comuni telespettatori e politici di dichiarata e comprovata fede progressista (ammesso che la sinistra, comunque la s’intenda, possa ancora fregiarsi di tale aggettivo, cosa di cui dubito, tesi che forse argomenterò in una prossima rubrica). Siamo così al passaggio nevralgico, al grumo nero che rende irrespirabile e mefitica l’atmosfera nel nostro paese. Gli opposti estremismi, incarnati da un lato dai berlusconidi e dall’altro dai loro cloni rovesciati, cioè i manettari (che si legittimano come unici avversari gli uni degli altri attraverso la… delegittimazione reciproca!), rendono impossibile qualsiasi serio tentativo di ragionare sulle cose con quel tanto di sano buon senso pragmatico e non dogmatico, nel rispetto della legalità, che la situazione richiederebbe. È mai possibile che il solo raccontare gli eventi per come si sono succeduti nella loro scansione temporale, si tratti dei fatti&misfatti di Berlusconi oppure della gestione banditesca dell’indagine su Tortora, finisca con il renderti un possibile “bersaglio mobile” o di pseudoinchieste giornalistiche che hanno l’obiettivo di infangarti o di pseudoinchieste giudiziarie che hanno l’obiettivo di intimidirti (basta un niente a far sì che una qualsiasi procura della Repubblica apra un fascicolo a noi intestato)? Ed è mai possibile che, soprattutto a sinistra, si abbia paura a esporre le proprie argomentate riflessioni non solo per non incappare nel rischio di cui sopra, ma anche per paura dell’ignobile accusa di “intelligenza con il nemico” (ora e sempre lui, l’unico, l’insuperabile: il Cav.)? Lo sbotto finale di Luca Bizzarri al Festival è stata la miglior dimostrazione di come questo clima di derby permanente, l’unico che gli ultras concepiscono perché è la loro sola ragione di vita (in quanto unica certificazione della loro esistenza), stia cominciando a venire percepito come insopportabile. «Basta con ’sto bipartisan. Possibile che in questo paese uno non possa dire quello che pensa, che deve schierarsi o di qua o di là; io penso ai cazzi miei, basta!». Questo “rutto” liberatorio, che ha meritato l’ovazione del pubblico, dovrebbe far riflettere. Ma ancor di più dovrebbero essere conservate in archivio le parole con cui Bizzarri ha svelato come la pensa su Roberto Saviano e la mobilitazione delle piazze. Intervistato dal Fatto Quotidiano, ha confessato non solo che la Rai non ha censurato alcuno dei loro interventi, ma anche che avrebbero voluto, lui e Paolo Kessisoglu, satireggiare sull’autore di Gomorra (che merita la più convinta e inflessibile solidarietà per l’esistenza blindata cui è costretto dalla fatwa lanciata nei suoi confronti dai camorristi casalesi): «Nel nostro team c’era chi aveva dubbi. Perché? Bisognerebbe chiederlo a chi non fa l’imitazione di Saviano. Lui è un personaggio molto positivo, ma a me fanno paura le beatificazioni, soprattutto in questo paese che in un attimo ti santifica e un secondo dopo ti crocifigge. E poi essere presi in giro fa bene». Quindi la seconda bestemmia: «Io sono diffidente verso le manifestazioni di piazza, hanno veramente significato solo nei regimi. L’Italia non è l’Egitto o la Libia. E poi, dal ’94 a oggi, le manifestazioni contro Berlusconi non sono servite a nulla. Il voto invece sì, eccome, se serve». Avete letto bene? Parole e opinioni non sguaiate, nessun omaggio al politicamente corretto che ormai vuole Saviano come Garibaldi e le piazze come l’epifania dell’“altra Italia”, naturalmente maggioritaria, antropologicamente diversa perché eticamente migliore. Ma che la piazza fosse un feticcio che a sinistra ormai non convinceva più tutti ho cominciato a pensarlo circa un anno e mezzo fa, allorché Sabrina Ferilli – sì, proprio lei, quella dell’«’A Fausto, ripensace!» quando Bertinotti stava per far cadere il primo governo Prodi, quella del «a Veltroni preferisco d’Alema, perché ha sempre quell’espressione che sembra dirti: ma vattela a pija nder…» – a Vanity Fair dichiarò: «La gogna e il giustizialismo non portano a nulla. A me la piazza che sentenzia, che giudica, fa paura. Credo nei poteri dello Stato democratico che filtrano la volontà popolare, mentre noi italiani nell’emotività del momento sosteniamo questo e, contemporaneamente, l’opposto di questo». Chi l’ha detto che, a destra come a sinistra, esistono solo gli agit-prop che fomentano le masse per indurle a urlare «crucifige! crucifige!» contro l’avversario?

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