Pubblicato su: www.pourfemme.it
Enza Bruno Bossio è calabrese, della provincia di Cosenza per l’esattezza, e se ha deciso di entrare a far parte della Commissione Parlamentare Antimafia, l’ente bicamerale che si occupa di controllare, coordinare e promuovere l’attività legislativa di contrasto alla criminalità organizzata, è per «rappresentarvi il suo territorio». La Deputata del PD è, infatti, convinta che «il primo strumento di lotta elle mafie sia proprio la presenza dello Stato sul territorio». Una presenza che si concretizza prima di tutto con le Forze dell’Ordine e con la Magistratura ed è per questo che la Bossio non accetta i tagli alle forze di Polizia, ma anche con «una dimostrazione di rigore da parte della politica». Quella parte “sana” della politica.
Come è approdata alla Commissione Parlamentare Antimafia?
«L’ho richiesto io perché, essendo calabrese, mi ero già occupata di mafia e soprattutto di ‘ndrangheta, che in questo momento è l’organizzazione criminale più forte, più pericolosa e soprattutto la più difficile da colpire a causa del suo carattere molto familiare. Non sono, però, una “professionista dell’antimafia” in senso stretto, perché me ne sono sempre occupata tramite battaglie politiche. Ho quindi voluto prendere parte alla Commissione Antimafia per una precisa volontà politica di rappresentarvi il mio territorio».
Chi sono, quindi, i “professionisti dell’antimafia”?
«Ce ne sono di positivi e di negativi. Sicuramente positivi sono quelli in prima linea: magistrati e poliziotti che fanno il loro dovere fino in fondo e, pur avendo paura, sfidano i clan. Non mi piacciono, invece, quelli che si mettono in cattedra e pretendono di insegnare la lotta alla mafia. Ci sono giornalisti, professori e studiosi che effettivamente forniscono informazioni importanti, ma ce ne sono altri che invece si limitano a bacchettare chi – secondo la loro valutazione – non è abbastanza “antimafiologo”».
Quale deve essere il ruolo della politica nella lotta alla mafia?
«Io le prime battaglie le ho fatte da ragazzina, quando uccisero l’esponente del Partito Comunista Giovanni Losardo, e lì ho imparato cosa vuol dire essere esposti come dirigenti di partito e amministratori locali nella lotta alla mafia. Oggi, come parlamentare, penso che sia importante legiferare in modo tale che la mafia e soprattutto la cosiddetta “zona grigia” possano essere più facilmente colpite. Ma penso che bisogna anche attuare un’iniziativa culturale per convincere i più giovani a uscire fuori dal ricatto culturale che la mafia porta avanti nei nostri territori. E quindi un’iniziativa sociale per dalle delle risposte reali in termini di sviluppo e di occupazione».
La legislazione antimafia è completa, al passo con i tempi o può migliorare?
«Quella italiana è attualmente la migliore legislazione antimafia non solo in Europa, ma forse nel mondo. Il problema, infatti, è proprio che essendoci ormai diramazioni criminali in tutto il mondo abbiamo difficoltà a colpire i clan perché trovano vita più facile in altri Paesi, dove investono il denaro che ottengono dal traffico soprattutto della droga. La questione legislativa e delle pene è più un problema europeo, in cui l’Italia potrebbe essere tenuta a modello».
Come si possono sfruttare al meglio i beni confiscati alla mafia?
«Innanzitutto la Commissione Antimafia, convinta della necessità di riorganizzare le funzioni e il ruolo dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, ne aveva richiesto il commissariamento, ma il Governo ha preferito procedere alla nomina del nuovo direttore. Il vero problema, infatti, è che dal momento del sequestro a quello della confisca passa molto tempo e, poi, la legislazione bancaria spesso ne ostacola l’assegnazione, ritardandone l’effettivo riutilizzo.
Inoltre, in alcuni territori, le connivenze fra alcune amministrazioni locali ed esponenti delle organizzazioni criminali allungano ulteriormente i tempi dell’assegnazione del bene, rendendolo di fatto inutilizzabile.
Più che la legislazione contro la mafia, andrebbero quindi riviste le norme legate al sequestro, alla confisca, alle ipoteche e alla proprietà».
Ultimamente molti pentiti denunciano il mancato mantenimento, da parte dello Stato, degli accordi contrattuali stretti al momento della collaborazione. Quali sono i rischi?
«L’esempio di Lea Garofalo è la testimonianza di come effettivamente ci siano delle gravi lacune nella gestione, nella tutela e nella protezione dei collaboratori di giustizia da parte degli organi preposti. E questa è indubbiamente una situazione difficile. Ci sono, però, casi i cui i pentiti godono di privilegi tali, del tutto lontani dalle condizioni in cui invece si vive nelle carceri».
È d’accordo con il carcere duro per i mafiosi?
«Sicuramente nei confronti dei boss è necessario prendere dei provvedimenti di isolamento in modo da evitare che possano, seppur in carcere, continuare a dirigere i clan. Se questo isolamento diventa, però, eccessivo, come nel caso dell’ergastolo ostativo, non solo è incostituzionale ma anche moralmente ingiusto. Io, poi, personalmente sono per il superamento perfino dell’ergastolo, a maggior ragione di quello ostativo che è, per molti aspetti, paragonabile alla pena di morte».
Qual è il primo strumento di lotta alle mafie?
«Sicuramente il primo strumento è la presenza dello Stato sul territorio, soprattutto con forze di polizie e giudiziarie che siano messe nelle condizioni di operare. Ed è per questo che non si possono tagliare le risorse per le Forze dell’Ordine: sarebbe infatti un segnale davvero negativo, al pari di quando si taglia la sanità. Il rischio è di produrre dei costi maggiori di quelli che si tagliano
Ma è necessaria anche una dimostrazione di rigore da parte della politica. Il comune di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, ad esempio, doveva essere sciolto per mafia ma, per un giudizio abbastanza discutibile del Ministero dell’Interno, questo non è successo. L’intera Commissione Antimafia ha deciso di recarsi sul posto e con la nostra presenza abbiamo ribadito questa necessità. La Giunta ha, così, deciso di dimettersi per “protesta”, una protesta che noi abbiamo accolto con grande sollievo. In quel caso lo Stato ha dimostrato, ad esempio, di esserci».
Come può lo Stato centrale arginare le connivenze nelle amministrazioni locali?
«Il provvedimento di scioglimento dei comuni può sicuramente essere uno strumento di contrasto a queste connivenze, a patto che poi non si aggiri con altri provvedimenti non coerenti o non si trovino addirittura escamotage per far ricandidare lo stesso sindaco che prima era stato rimosso. Su questo c’è sicuramente bisogno di un maggiore controllo, anche perché le organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta esercitano un controllo sul territorio non tanto per rafforzarsi da un punto di vista economica, visto che ormai gli investimenti li fanno altrove, ma perchè vogliono mantenere il rispetto. E il rispetto lo si mantiene tramite il controllo delle istituzioni locali, ovvero il comune o la chiesa. Interrompere queste relazioni fra organizzazioni criminali e istituzioni locali, laiche e religiose, è un punto di partenza fondamentale per indebolire i clan».
Come possono, invece, le segreterie nazionali dei partiti controllare che nelle realtà periferiche non ci siano questo tipo di connivenze?
«L’idea che da Roma si possa controllore tutto credo sia profondamente sbagliata. Piuttosto dovrebbero esserci degli organismi di partito, scelti in modo democratico, che esercitino un controllo sui territori».
Qual è l’attività della Commissione che sta seguendo con maggiore interesse?
«Da un alto la presenza sui territori che testimonia uno Stato che non ha paura di andare a presentarsi anche nei luoghi più complicati, dall’altro le audizioni che ci consentono di approfondire aspetti che diversamente si apprendono soltanto sui giornali, una per tutte la trattativa Stato-mafia».